Page 16 of In Other Words


  Una metamorfosi totale non è possibile nel mio caso. Posso scrivere in italiano ma non posso diventare una scrittrice italiana. Nonostante io scriva questa frase in italiano, la parte di me condizionata a scrivere in inglese resta. Penso a Fernando Pessoa, che ha inventato quattro versioni di se stesso: quattro autori separati, distinti, grazie ai quali è riuscito a oltrepassare i confini di sé. Forse quello che sto facendo, tramite l’italiano, somiglia più alla sua tattica. Non è possibile diventare un’altra scrittrice, ma forse sarebbe possibile esserne due.

  Curiosamente, mi sento più protetta quando scrivo in italiano, anche se sono molto più esposta. È vero che una nuova lingua mi copre, ma a differenza di Dafne ho una protezione permeabile, mi trovo quasi senza pelle. Sebbene mi manchi una corteccia spessa, sono, in italiano, una scrittrice indurita, che cresce diversamente, radicata di nuovo.

  SONDARE

  Tra il 1948 e il 1950, gli ultimi due anni della sua vita, Cesare Pavese, in quanto collaboratore della casa editrice Einaudi, scrive una serie di lettere a Rosa Calzecchi Onesti, ormai famosa per le sue innovative traduzioni dell’Iliade e dell’Odissea. Tramite una fitta e vivace corrispondenza fra Torino e Cesena, Pavese, che non conosce la traduttrice di persona, la spinge a rendere Omero in maniera fedele ma moderna in italiano, e a puntare a un linguaggio meno arcaico, più piano. Leggendo con scrupolo, confrontando meticolosamente la traduzione con il testo originale, esaminando tutto con cura, Pavese reagisce a ogni canto, ogni riga, ogni immagine, ogni parola. Le sue lettere sono zeppe di suggerimenti, ritocchi, opinioni. Interviene con schiettezza, ma sempre in modo rispettoso, cordiale. Tra le proposte in un lungo elenco: «Insisterei per bellissima invece di eletta per bellezza che dà un inutile tono ‘sublime’»; «Meglio che uccisore d’uomini mi pare assassino»; «Del mare che io faccio marino». Di tanto in tanto condivide pienamente una scelta di Calzecchi Onesti; per quanto riguarda il classico epiteto omerico, il mare colore del vino, scrive: «Sono d’accordo per il mare cupo. Via il vino».

  Pavese e Calzecchi Onesti fanno quello che fanno tutti gli scrittori al mondo, e chiunque si occupi di scrittura: cercano di trovare la parola giusta, di selezionare alla fine quella più azzeccata, ficcante. Si tratta di passare al setaccio, un processo estenuante, a volte esasperante. Chi scrive non può evitarlo. Il cuore del mestiere risiede qui.

  Le lettere di Pavese svelano una conoscenza possente, intima della propria lingua. Come scrittrice miro a fare come lui, ma posso farlo solo in inglese. Non posso tuffarmi nell’italiano con la stessa profondità. Posso sperare di scrivere in modo corretto, optare per una parola alternativa. Ma non possiedo un vocabolario vissuto, stagionato fin dall’infanzia. Non posso scrutare l’italiano con la stessa precisione. Non posso valutare un testo italiano, nemmeno scritto da me, dalla stessa prospettiva.

  Tuttavia, l’impulso di scovare la parola giusta resta irrefrenabile, per cui, perfino in italiano, ci provo. Controllo il dizionario dei sinonimi, sfoglio il taccuino. Infilo un nuovo vocabolo, appena letto la mattina sul giornale. Ma spesso i miei primi lettori scuotono la testa, dicendo semplicemente: «Non suona». Dicono che la parola che vorrei usare è considerata ormai datata, che appartiene a un registro o troppo basso o troppo raffinato, che suona o leziosa o troppo colloquiale (così ho imparato l’aggettivo aulico). Dicono che l’ordine delle parole non è autentico, che la punteggiatura non funziona. Non c’entra, necessariamente, la correttezza. Dicono che un italiano non si esprimerebbe così.

  Devo ascoltare quei lettori, devo seguire il loro consiglio. Devo togliere la parola scorretta o sbagliata e cercarne un’altra. Non posso difendere la mia scelta: non si può contraddire un madrelingua. Devo accettare che in italiano sono parzialmente sorda e cieca, per cui temo di essere una scrittrice spuria.

  Ho ormai un vocabolario ampio, ma rimane qualcosa di strampalato. Mi sento vestita in modo strambo, come se portassi una lunga gonna elegante di un’altra epoca, una maglietta sportiva, un cappello di paglia e un paio di ciabatte. Questo effetto sgraziato, questi toni scombinati potrebbero essere la conseguenza della distanza, fin dall’inizio, tra me e l’italiano: l’aver assorbito la lingua per anni da lontano, da varie fonti, prima di aver vissuto in Italia. Per due anni sono riuscita a imparare la lingua in modo agevole, quotidianamente. Ma ora che leggo in italiano, il mio lessico è anche plasmato da un amalgama di scrittori di varie epoche storiche che scrivono in diversi stili. Sui miei taccuini elenco le parole di Manganelli, Verga, Elena Ferrante, Leopardi, senza fare alcuna distinzione. Diceva Beckett che scrivere in francese gli permetteva di scrivere senza stile. Da un lato sono d’accordo: si potrebbe dire che la mia scrittura in italiano sia una specie di pane sciapo. Funziona, ma il solito sapore non c’è.

  Dall’altro lato, credo che ci sia uno stile, almeno un carattere. La lingua mi sembra una cascata. Non mi serve ogni goccia, eppure continuo ad avere sete. Sospetto, dunque, che il problema non sia la mancanza di stile ma forse una sovrabbondanza dalla quale mi sento ancora travolta. Ciò che mi manca in italiano è una vista acuta, per cui non riesco a limare uno stile specifico. Per di più non riesco a coglierlo. Se mi capita di formulare una bella frase in italiano, non riesco a capire esattamente perché è bella.

  Resto, in italiano, una scrittrice inconsapevole, consapevole solo di essere camuffata. In realtà mi sento una bambina che si intrufola nell’armadio della madre per mettersi le scarpe coi tacchi, un vestito da sera, gioielli preziosi, una pelliccia. Temo di essere colta sul fatto, di essere rimproverata, rimandata in camera mia. «Devi aspettare» direbbe mia madre. «Questa roba è troppo grande per te.» Ha ragione lei. Non riesco a camminare con disinvoltura nelle sue scarpe. La collana mi pesa, inciampo nell’orlo del vestito. Dentro la pelliccia, per quanto sia elegante, sudo.

  Come la marea il mio lessico s’innalza e si abbassa, viene e se ne va. Le parole aggiunte ogni giorno sul taccuino sono labili. Impiego un’ora per scegliere quella giusta, ma poi, spesso, la dimentico. Ormai quando incontro una parola sconosciuta in italiano conosco già un paio di termini, sempre in italiano, per esprimere la stessa cosa. Per esempio, di recente ho imparato accantonare, conoscendo già rinviare e sospendere. Ho scoperto travalicare, conoscendo già oltrepassare e superare. Ho sottolineato tracotante, conoscendo già arrogante e prepotente. Poco tempo fa ho acquisito azzeccato e ficcante; prima avrei usato adatto, appropriato.

  Faccio del mio meglio per colpire il bersaglio, ma quando prendo la mira, non si sa dove arriverà la freccia. Almeno cento volte mentre scrivevo i capitoli di questo libro mi sono sentita talmente demoralizzata, talmente affranta che avrei voluto smettere di farlo. In quei momenti tenebrosi la mia scrittura italiana non mi è sembrata altro che un’impresa folle, una salita troppo ripida. Se voglio continuare a scrivere in italiano devo resistere a quei momenti burrascosi in cui il cielo si scurisce, in cui mi dispero, in cui temo di non poterne più.

  Invidio Pavese, la sua capacità di sondare l’italiano fino al fondo. Ma penso anch’io di aver fatto un sondaggio attraverso queste riflessioni. Indagando la mia scoperta della lingua, penso di aver fatto un’indagine su di me. Il verbo sondare vuol dire esplorare, esaminare. Vuol dire, letteralmente, misurare la profondità di qualcosa. Secondo il mio dizionario questo verbo significa «cercare di conoscere, di capire qualcosa, in particolare i pensieri e le intenzioni di altri». Implica distacco, incertezza; implica uno stato di immersione. Significa ricerca, metodica e accanita, di qualcosa che resta sempre fuori portata. Un verbo azzeccato che spiega alla perfezione questo mio progetto.

  L’IMPALCATURA

  Ho concepito e scritto questo libro in una biblioteca nel ghetto di Roma. Quando sono venuta in questa città per la prima volta, più di dieci anni fa, è stato il primo quartiere che ho scoperto. Resta il mio preferito. Non dimenticherò mai l’emozione di vedere il portico di Ottavia, a poca distanza dall’appartamento che avevamo preso in affitto per una settimana. Mi colpì talmente che dopo esser tornata a New York scrissi, in inglese, un racconto ambientato nel ghetto, in cui descrivevo i resti del porti
co: «Le colonne smangiate e circondate dalle impalcature, il frontone massiccio al quale mancavano porzioni significative». All’epoca questo complesso antico, danneggiato, frammentato, rifatto varie volte, ancora in piedi, per me incarnava il senso della città. Oggi mi dà la metafora con cui vorrei chiudere questa serie di pensieri.

  Scrivo per sentirmi sola. Fin da ragazzina è stato un modo di ritirarmi, di ritrovarmi. Mi servono il silenzio e la solitudine. Quando scrivo in inglese do per scontato di poterlo fare senza aiuto. Qualcuno può darmi un suggerimento, può indicare qualche problema. Ma per quanto riguarda il percorso linguistico, sono autosufficiente.

  In italiano ho seguito un altro sentiero. Ero da sola nella biblioteca, è vero. Mentre scrivevo non c’era nessuno con me. Il mio unico compagno era un volume delle poesie e delle lettere di Emily Dickinson, la solitaria poetessa americana che trascorse tutta la vita nel Massachusetts, non lontano da dove sono cresciuta io. Un bel libro, rosso, tradotto in italiano, che aveva attirato per caso la mia attenzione tra tutti gli altri sugli scaffali della biblioteca. Spesso, prima di iniziare un nuovo pezzo, leggevo un poema o una delle lettere di Dickinson. È diventato, per me, una specie di rituale. Un giorno ho trovato queste righe: «Sento che sto navigando sull’orlo di uno spaventoso abisso, a cui non posso sfuggire e nel quale temo che la mia fragile barchetta presto scivoli se non ricevo aiuto dall’alto». Sono rimasta folgorata. Scrivendo questi capitoli, mi sono sentita esattamente così.

  Li ho scritti in ordine, uno dopo l’altro, come se fossero i compiti per le mie lezioni d’italiano. Per sei mesi, più o meno ogni settimana sono riuscita ad abbozzarne uno. Non ho mai affrontato un progetto di scrittura in maniera così metodica. Ho inviato la prima stesura al mio insegnante, il mio primo lettore. Durante le lezioni ci abbiamo lavorato insieme. È stato un processo rigoroso, nuovo sia per me sia per lui. Lui ha visto tutti gli errori grossolani, tutti i peccati mortali: «gli penso» invece di «ci penso», «sono chiesta» invece di «mi viene chiesto». All’inizio mi faceva una serie di appunti abbondanti, puntigliosi («Attenzione a non utilizzare troppi verbi sostantivati»; «Mica è troppo colloquiale»; «Lasciarsi alle spalle. Lasciare non è sbagliato ma è meno autentico»). Per il primo racconto, che era lungo meno di cinquecento parole, ha fatto trentadue note in fondo alla pagina. Mi ha dato parole in alternativa, mi ha corretto (e rimproverato) quando sbagliavo per l’ennesima volta un congiuntivo, un gerundio, un periodo ipotetico. Mi ha spiegato come l’inglese mi braccasse. Ha indicato, sempre con pazienza, quante volte una preposizione sbagliata rompeva le scatole.

  Dopo aver preparato un testo più o meno pulito con l’insegnante, ho fatto vedere ogni pezzo a due lettrici, entrambe scrittrici. Loro mi hanno suggerito delle modifiche più sottili. Con loro ho analizzato il testo dal punto di vista tematico piuttosto che grammaticale, in modo da capire davvero quello che facevo. Mi hanno spiegato quale impatto avevano su di loro questi miei pensieri. Mi hanno sempre detto la cosa più importante che avevo bisogno di sentire: vai avanti.

  La terza tappa, l’ultima, sono stati gli editor di «Internazionale», la rivista in cui questi testi sono comparsi per la prima volta, che mi hanno dato un’opportunità impagabile. Hanno capito il mio desiderio di esprimermi in una nuova lingua, hanno rispettato la stranezza del mio italiano, hanno accettato la natura, sperimentale, un po’ claudicante, della scrittura. Lavorando insieme, abbiamo fatto gli ultimi ritocchi prima della pubblicazione, mettendo alla prova ogni frase, ogni parola. Grazie a loro sono riuscita a fare questo salto linguistico, creativo. Sono riuscita a raggiungere nuovi lettori italiani e, infine, a raggiungere una nuova parte di me.

  Il giorno in cui è uscito il primo articolo, pur avendo un carattere abbastanza schivo, mi sono talmente emozionata che avrei voluto annunciare la notizia in mezzo alla piazza. Mi sono sentita così solo quando è stato pubblicato il mio primo racconto in inglese, più di vent’anni fa. Credevo, all’epoca, che sarei riuscita a provare quella gioia solo una volta nella vita.

  Tutti i miei primi lettori mi hanno fornito uno specchio critico. Come ho detto prima, non sono capace di vedere con chiarezza ciò che scrivo in italiano. Ma più che altro questi lettori mi hanno sostenuta, come le impalcature sostengono tantissimi edifici a Roma, sia in rovina sia in costruzione.

  Benché questo progetto sia stato una specie di collaborazione, scrivere in italiano mi lascia più isolata rispetto all’inglese. Ora mi sento estranea agli scrittori anglofoni con cui sono linguisticamente imparentata e sono per forza diversa da quelli italiani. Quando penso agli autori che hanno deciso, per vari motivi, di lavorare in una lingua straniera, non mi sento neanche un membro legittimo di quel gruppo. Beckett ha vissuto in Francia per decenni prima di scrivere in francese, Nabokov aveva imparato l’inglese da ragazzo, Conrad ha trascorso parecchio tempo sul mare, assorbendo l’inglese, prima di diventare uno scrittore anglofono anziché polacco. Quello che faccio io – osare scrivere in italiano dopo aver vissuto appena un anno in Italia – è diverso, fuori del comune, per cui provo una solitudine ancora più forte, quasi un’altra dimensione della solitudine. Mi chiedo se ci siano altri come me.

  Un’impalcatura non è considerata una bella cosa. Costituisce, di solito, una specie di obbrobrio. Interferisce, imbruttisce. Idealmente non dovrebbe esserci. Se mi capita di dover passare sotto un’impalcatura, preferisco attraversare la strada. Temo sempre che stia per stramazzare.

  Nel caso del portico di Ottavia, però, faccio un’eccezione. Non ho mai visto il portico senza impalcatura, per cui ormai la considero permanente, naturale. Nonostante sia un’ostruzione, l’impalcatura aggiunge alla rovina un attributo commovente. Mi sembra un miracolo vedere le colonne, il frontone, restaurato e dedicato in età augustea. Mi stupisco che si possa camminare tranquillamente sotto questo complesso, a pezzi eppure ancora presente. Racconta il passare del tempo ma anche il suo azzeramento.

  Quando la mia scrittura italiana viene pubblicata, l’impalcatura scompare. A parte certe parole, certe scelte che tradiscono il fatto che l’italiano non sia la mia lingua, non si vede ciò che mi puntella, che mi protegge. Ciò che nasconde la parte vulnerabile resta invisibile. Ma quest’assenza non è altro che un’illusione. Io sono consapevole sempre della mia impalcatura, senza la quale sarei crollata anch’io.

  A differenza del portico di Ottavia la mia scrittura italiana, appena iniziata, non è ancora logora. Dubito che durerà per secoli. Ma l’impalcatura serve per lo stesso motivo: rafforzare un lavoro che potrebbe cadere. Non la trovo brutta. Forse un giorno non ce ne sarà più bisogno. Se riuscissi a sbarazzarmene e scrivere per conto mio, mi sentirei più indipendente. Ma la mia impalcatura, un gruppo di cari amici che mi hanno guidata e circondata, a cui lego una delle esperienze più straordinarie della mia vita, mi mancherà.

  PENOMBRA

  Si sveglia disorientato, agitato da un sogno, accanto a sua moglie.

  Anche nel sogno era accanto alla moglie. Sempre disorientato, agitato. Stavano guidando in campagna lungo una strada fiancheggiata da alberi e cespugli. C’era una luce indeterminata. Poteva essere o l’alba o il tramonto. Il cielo era pallido ma aveva una punta di rosa.

  Il paesaggio evocava un vecchio quadro dipinto a olio: una scena rurale, spopolata, tenebrosa. Le chiome degli alberi sembravano una massa di nuvole che ingombravano il cielo, e i tronchi gettavano ombre sottili che li accompagnavano lungo un lato della strada.

  La moglie era al volante. E mentre lei guidava lui era pieno di ansia, perché alla macchina, benché funzionasse, mancava tutta la carrozzeria. A parte il volante, i pedali, il cambio, non c’era nulla tra loro e la strada.

  La moglie guidava come se non se ne fosse accorta, oppure come se non ci fosse nessun pericolo, mentre l’assenza dell’involucro dell’auto e la prossimità della strada lo sgomentavano.

  Gridò alla moglie di fermarsi. Ma come al solito nei sogni non aveva una voce. Erano andati avanti così, senza parlare, senza problemi, sempre lungo le ombre sottili degli alberi. Non c’era nessun ostacolo lungo la strada. Non avevano avuto nessun inc
idente, benché lui se lo aspettasse. Forse il dettaglio più inquietante del sogno era quello.

  Ora è notte fonda e sua moglie dorme, ma per lui, appena tornato da un paio di mesi all’estero, è già mattino. Ha l’impulso di alzarsi e di iniziare la giornata. Appartiene ormai al ritmo quotidiano di un altro Paese dove il cielo è già azzurro, dove lui non c’è più.

  Non riesce a dormire, eppure l’effetto del sogno lo stordisce. Teme che ci siano altre assenze, altre cose venute a mancare. Vuole controllare che ci sia ancora il pavimento sotto il letto, che la stanza abbia ancora quattro pareti.

  Sua moglie rimane lì, alla sua sinistra, così come nel sogno. Vede le sue braccia nude, i suoi lineamenti illuminati dalla luna piena.

  Anche la tavola, a cena, terminata poche ore fa, era stata piena. La moglie aveva organizzato una grande cena per festeggiare il suo rientro. Lui non aveva appetito, lo schiamazzo allegro attorno al tavolo gli dava fastidio. A quell’ora, dopo aver percorso una grande distanza, voleva solo andare a letto.

  Invece era rimasto seduto al tavolo, raccontando agli ospiti, tutti loro cari amici, delle sue esperienze all’estero: il Paese in cui era stato, l’appartamento che aveva affittato, l’aspetto della città. Parlava della gente, e del loro carattere. Spiegava il lavoro che aveva fatto. A un certo punto, per soddisfare la curiosità di uno degli ospiti, aveva detto un paio di cose nella lingua straniera che aveva imparato, sentendosi, in quel momento, forestiero in casa propria.

  Entra in cucina. Non c’è bisogno di accendere la luce, basta il bagliore della luna. Vede la scia spettacolare della cena: tutti i piatti e bicchieri sporchi, pentole e padelle unte, un vassoio gigantesco di ceramica in cui la moglie aveva servito un piatto squisito. La sera precedente avevano lasciato tutto così prima di andare a letto, lui perché era stanco, lei perché aveva bevuto un po’ troppo.